Omelia nella Domenica XVI dopo Pentecoste

Mons. Carlo Maria Viganò

Domenica XVI dopo Pentecoste

17 Settembre 2023

Domine, in auxilium meum respice:
confundantur et revereantur,
qui quærunt animam meam, ut auferant eam:
Domine, in auxilium meum respice.

Ant. ad Offert.

 

Il Santo Vangelo della Domenica XVI dopo Pentecoste propone alcuni spunti di meditazione per questi momenti di grande crisi e tribolazione, sia per quanto riguarda la vita del corpo ecclesiale e della società, sia per la vostra Comunità, sia infine per l’anima di ciascuno di noi. 

Due sono i fatti riportati da San Luca: la guarigione dell’idropico e la parabola degli invitati alle nozze. 

Il primo insegnamento che possiamo trarre è che il miracolo compiuto dal Signore ci mostra come la legge sia ordinata all’uomo e non viceversa, e che pertanto sbaglia chi, applicando la norma acriticamente e senza prudenza, ne fa un idolo e finisce con il contraddire lo spirito della legge, la mens che l’ha determinata. Per questo tirar fuori dal pozzo un asino o un bue – e a maggior ragione guarire miracolosamente un malato – non viola minimamente il precetto del riposo. Il bene non può essere intralciato dalla legge, che è nata per favorirlo e incoraggiare i buoni, e parallelamente per impedire il male e punire i malvagi. 

Questo è un aspetto molto importante da comprendere, in un momento in cui l’autorità abusa del proprio potere in nome di un’osservanza burocratica della norma, che viene però usata per lo scopo opposto a quello per cui la Chiesa l’ha emanata. Non solo: l’obbedienza alla legge ecclesiastica non può mai comportare la disobbedienza alla legge divina: questo è il senso del gesto di Nostro Signore. Egli non tira fuori un asino dal pozzo – cosa questa che avrebbe certamente convinto i farisei a trovare un sistema (“gesuitico” diremmo oggi) per aggirare la norma – ma guarisce una persona affetta da idropisia, considerata una fastidiosa presenza in casa del notabile. E siccome le malattie del corpo che il Messia guarisce miracolosamente hanno sempre un parallelo con le malattie dello spirito (cosa di cui i farisei erano convinti), ecco apparire evidente la scala gerarchica in cui la salvezza dell’anima viene prima di quella del corpo, e questa prima della osservanza farisaica del precetto. 

Siamo purtroppo abituati – in particolare da dieci anni a questa parte – a vedere spiegato questo episodio evangelico come una condanna del fariseismo dei Cattolici tradizionali, definiti con vari epiteti spregiativi in ragione della loro “rigidità”. In realtà, quello che il Signore biasima non è il rispetto della legge – che altrove è anzi elogiato: euge serve bone, quia in pauca fuisti fidelis – bensì il formalismo ipocrita di chi perde di vista il fine della norma, ed anzi lo sovverte proprio nel momento in cui la pone al di sopra della Verità e della Carità, ossia al di sopra di Dio. 

Comprendiamo allora che l’imposizione frenetica della rivoluzione conciliare, della sinodalità, di Cor Orans o di Traditionis Custodes è rivelatrice di quell’atteggiamento farisaico che pure a parole condanna. Con questa ossessiva mania di voler forzare le volontà dei singoli ad un modello astratto e del tutto alieno alla volontà di Dio, la Gerarchia modernista dimostra di aver scandalosamente accantonato il fine principale della propria autorità – la gloria di Dio, l’onore della Chiesa e la salvezza delle anime – e di pensare invece ad assecondare esclusivamente i propri farneticamenti ereticali, in modo autoreferenziale. Alla base di questo vi è l’orgoglio, la presunzione di sé, il disprezzo del bene dei fedeli e l’assoluta mancanza di timor di Dio. 

Se infatti il bene delle anime e la gloria della Maestà divina fossero realmente lo scopo principale dell’azione di costoro, essi non passerebbero il proprio tempo a perseguitare le Comunità vicine alla Tradizione, a commissariare Diocesi e a costringere alle dimissioni buoni Vescovi; né anteporrebbero la stolida osservanza dei diktat iconoclasti di Bergoglio all’evidente bene spirituale rappresentato dalla celebrazione della Messa apostolica. Non darebbero in escandescenze se delle Monache seguono la Regola del loro Fondatore o se cantano l’Ufficio in latino, ma penserebbero piuttosto ad ammonire e a punire severamente chi nega le Verità cattoliche o ne infrange la Morale, o chi trasgredisce impunemente i Voti religiosi. Invece in quel caso, significativamente, la furia legalista dei farisei di Santa Marta cede ad una tollerante indulgenza che suona come incoraggiamento dell’eresia e del vizio, se non addirittura come una aperta condivisione di entrambi. 

Veniamo ora al secondo insegnamento del Vangelo di oggi, che trovo estremamente istruttivo. 

Osservando come i convitati scegliessero i primi posti, prese a dir loro questa parabola: Quando sei invitato a nozze, non metterti al primo posto, perché potrebbe darsi che una persona più ragguardevole di te sia stata pure invitata, e allora quegli che ha invitato te e lui può venire a dirti: Cedigli il posto. E allora occuperai con vergogna l’ultimo posto.

Nella parabola troviamo anzitutto ribadita la struttura gerarchica della società, specchio della gerarchia celeste: essa vale nel mondo civile e in quello ecclesiastico, checché ne dicano i fautori della democrazia e della sinodalità. Al banchetto in casa del notabile fariseo gli invitati cercano di mettersi in mostra, di prendersi un posto vicino agli sposi. Così facendo pensano a se stessi, alla propria immagine pubblica, all’invidia che susciteranno in chi siede più lontano; alle foto – potremmo dire per attualizzare – che verranno pubblicate sui rotocalchi, ai selfie che manderanno agli amici. Ma alle Nozze dell’Agnello i posti sono assegnati dal padrone di casa, e non dalla capacità di sgomitare degli invitati, né tantomeno dalla loro “furberia”. Per questo, anche da un punto di vista banalmente umano, è più saggio avere la consapevolezza dei propri limiti e lasciare che sia il nostro ospite a decidere dove farci sedere: 

Ma quando sarai invitato, va a metterti nell’ultimo posto, affinché, venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più avanti. Allora ne avrai onore presso tutti i convitati: perché chiunque si innalza, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà innalzato. 

Voi, care sorelle, siete sedute all’ultimo posto. Siamo un po’ tutti seduti all’ultimo posto: la nostra “rigidità”, il nostro “alzare muri”, la nostra indisponibilità a lasciar distruggere la Chiesa da parte della sua stessa Gerarchia, ci pone tra i reietti, tra gli ultimi, tra gli straccioni, gli storpi e gli zoppi che i servi del ricco signore dell’altra parabola manda a chiamare dalle piazze e dai crocicchi, e ai quali generosamente dona la veste sontuosa con cui presentarsi al banchetto. Sono seduti all’ultimo posto tanti fedeli, tanti sacerdoti e tanti religiosi e religiose senza nome, senza volto, senza fama: anime buone che non meritano le recensioni della Civiltà Cattolica o di essere ricevuti dai grandi della terra. Persone senza voce, sconosciute, quasi sempre disprezzate o ridicolizzate. L’anziana signora col velo in testa, la famiglia cattolica con tre o quattro figli, lo studente inginocchiato dinanzi al Tabernacolo, la giovane commessa con la gonna sotto il ginocchio, l’operaio che indossa lo scapolare sul cantiere, il francescano in saio e sandali che chiede l’elemosina: tutto un mondo sommerso e silenzioso di anime belle, che il mondo tiene ai margini della società, in quelle “periferie esistenziali” in cui nessun vescovo o prete di strada andrà mai a farsi vedere, preso com’è dall’accaparrarsi uno dei primi posti. 

Scopriranno con sorpresa, tutti questi “primi” della chiesa bergogliana, di dover cedere il posto a chi considerano ultimi, ammesso che al banchetto del Signore essi si presentino con la veste della Fede ricevuta in dono. Era uno degli ultimi anche San Francesco, che pure scelse una vita di povertà estrema e di rinuncia al secolo: le Sacre Stimmate che egli ricevette per meglio assimilarsi a Gesù crocifisso – e che l’Ordine Serafico celebra proprio oggi – sono il segno di una predilezione che il mondo rifugge e aborrisce. Sono il marchio nella carne della Croce di Cristo, che ognuno di noi dovrebbe saper portare impresse spiritualmente, perché non c’è gloria della Resurrezione senza passare per l’ignominia della Passione; non c’è onore nell’essere chiamati più avanti nei posti del banchetto, se prima non avremo scelto per noi gli ultimi posti. Ci ha preceduti in questa umiliazione, sin dal momento dell’Incarnazione, il nostro Maestro, che si è annullato – exinanivit semetipsum formam servi accipiens, dice la Scrittura (Fil 2, 7) – per redimerci. Sia dunque il Signore il nostro modello, specialmente in questi tempi di tribolazione e di prova. E così sia. 

 

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo 

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