Omelia nella Festa di San Carlo Borromeo
Festa di San Carlo Borromeo
4 Novembre 2023
Celebriamo la festa di San Carlo Borromeo, Cardinale Arcivescovo di Milano, Confessore della Fede, Patrono della Città e della Diocesi ambrosiana. Un Santo che, come tutti i Santi proclamati dalla Chiesa prima della rivoluzione conciliare, oggi sarebbe additato come divisivo, intollerante e integralista dall’inquilino di Santa Marta, ritenuto Successore di quei Papi che vollero questo grande Prelato a Roma prima come membro del Sant’Uffizio e Segretario di Stato – sotto lo zio Pio IV – e poi come consultore al Concilio Tridentino ed esecutore della riforma che esso mise in atto alla fine del Cinquecento, regnante San Pio V. Fu presidente della commissione di teologi incaricati dal Papa di elaborare il Catechismus Romanus insieme a grandi personaggi della Riforma cattolica come San Pietro Canisio, San Turibio da Mogrovejo e San Roberto Bellarmino. Lavorò alla revisione del Messale, del Breviario e della musica sacra; si impegnò nella fondazione dei Seminari – istituzione eminentemente tridentina – e nella difesa degli Ordini Sacri, del Celibato sacerdotale, del Matrimonio. Fu zelantissimo Pastore, munifico verso i poveri e i malati, implacabile avversario dei Riformati e degli eretici protestanti, caritatevole e accogliente verso i Cattolici inglesi rifugiatisi in Italia per sfuggire alle persecuzioni di Elisabetta I.
San Carlo fu insomma a pieno titolo un vero Vescovo conciliare, che dello spirito del postconcilio si fece promotore indefesso tanto nella Chiesa universale quanto nella Chiesa ambrosiana. Immagino che, formulata così, questa affermazione possa suscitare qualche sbalordimento; ma se vi prestiamo attenzione, il ruolo di questo Santo Vescovo rispetto al Concilio di Trento fu analogo a quello che, quattrocento anni dopo, ebbero altri Vescovi e Prelati nel Concilio indetto da Giovanni XXIII. Analogo, ma di segno diametralmente opposto. Ed è in questo che possiamo comprendere la differenza che sussiste tra l’essere buoni Pastori fedeli a Cristo e l’essere mercenari al soldo del nemico. In questo possiamo vedere la differenza tra il servo buono e fedele che fa fruttare i talenti ricevuti dal suo Signore e il servo malvagio che li sotterra (Lc 19, 22).
Cosa dunque costituisce la differenza tra San Carlo Borromeo – e insieme a lui tutti i Santi Confessori della Fede – e l’attuale Episcopato? La Carità, ossia l’amore di Dio sopra ogni cosa e l’amore del prossimo per amor Suo. Fu infatti il fuoco di Carità, illuminata dalla Fede, ad animare di zelo apostolico San Carlo in tutta la sua vita. Senza Carità, egli avrebbe lasciato gli eretici nell’eresia e non avrebbe combattuto i loro errori. Senza Carità non avrebbe aiutato i poveri, i malati, gli appestati. Senza Carità non avrebbe provveduto alla formazione dei chierici, alla disciplina dei sacerdoti e dei religiosi, alla riforma dei costumi dei parroci, al decoro della Santa Liturgia. Senza Carità egli avrebbe chiesto ai Cattolici inglesi, in nome dell’inclusività, di dialogare con la loro regina eretica, feroce nemica dei “papisti”. Senza la Carità, che ci fa amare Dio nella Sua sublime Verità e detestare tutto ciò che offusca il Suo insegnamento, San Carlo non avrebbe partecipato al Concilio di Trento per definire con maggior forza i punti della dottrina cattolica impugnati dai Luterani e dai Calvinisti, ma avrebbe anzi cercato di smussare ogni divergenza teologica per non farli sentire esclusi e giudicati. Avrebbe emarginato i buoni sacerdoti e fedeli, accusandoli di essere rigidi e deridendoli nei suoi scritti o nelle sue omelie. Non si sarebbe preoccupato di vigilare sulla moralità del Clero, promuovendo anzi gli indegni per assicurarsi la loro complicità. Avrebbe cioè agito come i Vescovi del Vaticano II o come i cortigiani di Santa Marta, abbandonando le anime al pericolo della dannazione eterna e trascurando i propri doveri di Pastore e di Successore degli Apostoli. Avrebbe dimostrato di non amare Dio, perché chi non Lo riconosce per come Egli Si è rivelato, non può amarLo nelle Sue divine perfezioni; e chi lascia che anche una sola anima si perda lontano dal Signore senza cercare di convertirla, non ama il prossimo perché non vuole il suo bene, ma la sua approvazione o peggio la sua complicità. Se il Borromeo si fosse comportato in questo modo avrebbe insomma amato se stesso e la proiezione ideologica di una “sua” chiesa, vanificando i talenti ricevuti, ed oggi non lo celebreremmo nella gloria dei Santi, ma lo ricorderemmo nel novero degli eresiarchi. Se il Borromeo si fosse comportato secondo il «tutti, tutti dentro» dell’inquilino di Santa Marta, le anime messe dalla Provvidenza lungo il suo cammino per essere salvate, si sarebbero perdute.
Se vogliamo avere una prova ulteriore dell’abisso che separa i Santi Pastori – e San Carlo tra questi – dai mercenari che oggi infestano la Chiesa di Cristo, è sufficiente che ci immaginiamo come egli giudicherebbe i partecipanti al Sinodo sulla Sinodalità, e cosa direbbe della condanna di Bergoglio a chi «si limita a riproporre astrattamente formule e schemi del passato», del suo invito ad una «evoluzione dell’interpretazione» delle Sacre Scritture, del culto della Pachamama, del suo starsene in piedi coram Sanctissimo, della Dichiarazione di Abu Dhabi, del presunto ruolo delle donne nel governo della Chiesa, della volontà di abolire il Sacro Celibato, dell’ammissione dei concubinari e dei divorziati alla Comunione, della benedizione delle unioni omosessuali e della promozione dell’ideologia LGBTQ+, dell’aver promosso un farmaco dannoso e mortale, dell’essersi fatto zelante sostenitore dell’Agenda 2030. E non pensiamo che la reazione di San Carlo sarebbe un’eccezione: non vi è uno solo dei Santi, dei Dottori, dei Papi sino a Pio XII incluso che approverebbe nulla di quanto si sta consumando in Vaticano. Al contrario, tutti indistintamente riconoscerebbero nell’azione di governo e di pseudo-magistero di questi ultimi decenni – e del presente “pontificato” in particolare – l’opera del Nemico infiltrato nel sacro recinto, e non esiterebbero a condannarla senza appello, e con essa i suoi artefici, esattamente come tutti condannarono gli errori del loro tempo e moltiplicarono gli sforzi per proteggere il gregge loro affidato e confermarlo nella Verità.
Chiesa e anti-chiesa si fronteggiano, in questo momento epocale, perché appaia in tutta la sua cruda realtà quel mysterium iniquitatis che sinora avevamo visto emergere episodicamente – ed energicamente combattere da parte di santi Pastori – nel corso della Storia.
Da un lato la Chiesa di Cristo, acies ordinata, mossa dalla Carità nella Fede per la gloria di Dio e la santificazione delle anime, nella gratuità della Grazia. Semper eadem, nella immutabilità che le viene dal suo Capo, che è Dio perfettissimo e la cui Parola è stabile nei secoli. Dall’altro la sinagoga di Satana, l’antichiesa conciliare e sinodale, i cui corrotti ministri sono spinti dall’interesse personale, dalla sete di potere e di piaceri, accecati dall’orgoglio che fa loro anteporre se stessi alla Maestà di Dio e alla salvezza delle anime: una setta di traditori e rinnegati che non riconoscono alcun principio immutabile ma che si nutrono di provvisorietà, di contraddizioni, di equivoci, di inganni, di menzogne, di turpi ricatti. Questa antichiesa non può che essere intrinsecamente rivoluzionaria, perché il suo sovvertimento dell’ordine divino non accetta a priori alcunché di eterno, ed anzi lo aborrisce proprio in quanto immutabile, perché non può manometterlo, dal momento che alla perfezione non vi è nulla da aggiungere o da modificare. La rivoluzione permanente, cifra dell’attuale compagine ecclesiastica, ha sedotto molti fedeli e chierici con le lusinghe della mentalità liberale e del pensiero hegeliano, facendo credere a tanti moderati, che il loro momentaneo quieto vivere sia sufficiente a garantire un’impossibile coesistenza tra Tradizione e Rivoluzione, per il solo fatto che li si lasci celebrare la Messa antica in cambio dell’accettazione del compromesso e del non mettere in discussione il Vaticano II, come gli Ebrei con i sacerdoti di Baal al tempo del profeta Elia.
L’adagio cattolico Nihil est innovandum – Nulla dev’essere cambiato – non è uno sterile arroccarsi su posizioni preconcette per paura di affrontare ciò che è nuovo, come vorrebbero farci credere i falsi pastori infiltrati nella Chiesa. Esso esprime al contrario la serena consapevolezza che la Verità di Cristo – che è Cristo stesso, Λόγος, Verbo eterno del Padre, Alfa e Omega – non conosce la corruzione del tempo, perché appartiene alla perfezione di Dio: veritas Domini manet in æternum (Sal 116, 2). Per questo non vi è, né vi può essere, cambiamento sostanziale nell’insegnamento della Chiesa: perché il suo Magistero è e dev’essere quello del suo divino Fondatore. E semmai vi è qualcosa che il bene delle anime richiede di porre in maggior luce, ciò deve sempre e comunque consistere in una nostra riforma personale, ossia nel ricondurre alla fedeltà della forma originaria la nostra risposta all’immutabile insegnamento di Nostro Signore. Perché non è l’eterna perfezione di Dio che deve adeguarsi alla nostra miserabile mutevolezza, bensì la nostra infedeltà che deve avere come modello e meta il conformarsi alla volontà di Dio: sicut in cœlo et in terra.
Per la prima volta nella Storia, in questa battaglia tra Chiesa e anti-chiesa, la prima non è solo emarginata e perseguitata, ma si trova anche defraudata della suprema autorità del Romano Pontefice, un’autorità usurpata e usata per demolirla dalle fondamenta, per rendere ufficiale una transizione iniziata sessant’anni fa. Nave senza nocchiere in gran tempesta (Inf. VI, 77). Se non avessimo la promessa di Cristo con il Non prævalebunt, verrebbe da credere che le porte degli inferi siano ormai trionfanti. Ma sappiamo che l’apparente vittoria del Nemico è tanto più prossima alla fine quanto maggiore è l’arroganza di chi osa sfidare Nostro Signore, e che le nostre tribolazioni sono la benedetta punizione terrena con cui Egli ci purifica, mettendoci dinanzi l’orrore dell’apostasia di un papa e con lui di tanti vescovi. Ringraziamo dunque la Maestà divina di aver fatto cadere tante maschere, dietro le quali si nascondevano anime perdute. Maschere cadute soprattutto durante la farsa del Sinodo sulla Sinodalità, e che ci permettono di comprendere quanto vere ed attuali siano le parole del Signore: Nessuno può servire due padroni (Lc 16, 13).
Insieme alla Carità vi è sempre la santa Umiltà, nutrice di questa Virtù teologale. San Carlo fu uomo e pastore veramente umile. Non nello spogliarsi della dignità cardinalizia o episcopale; non nel comportarsi o nel parlare in modo rozzo affettando semplicità; non nell’ostentare una finta povertà seguito dai fotografi, o nel baciare la mano ai grandi usurai della Sinagoga, o nel simulare compassione per i poveri usati come bandiera ideologica. San Carlo fu umile e povero nel segreto, lontano dagli occhi della massa, dove solo il Signore vede la purezza delle nostre intenzioni e la sincerità del nostro cuore.
Dinanzi alla crisi che travaglia la Santa Chiesa e all’apostasia della Gerarchia, dobbiamo prendere esempio da ciò che San Carlo fece, e allo stesso tempo evitare di compiere ciò che San Carlo evitò: una regola aurea che ci permetterà di discernere come comportarci in questi tempi terribili. Questo vale certamente per i fedeli, ma eminentemente per i Ministri di Dio e per i Religiosi, che nel grande Arcivescovo di Milano possono trovare un modello di vita e di santità. Un modello che rimane valido proprio perché ha come unico scopo l’amore di Dio e del prossimo, e non rincorre lo spirito del tempo né cerca di compiacere il Principe di questo mondo. È quello che ci invita a compiere l’orazione della Messa: O Dio, che hai ornato la tua Chiesa con le salutari riforme operate da San Carlo, tuo Confessore e Pontefice, concedi a noi propizio di sentire la sua celeste protezione, mentre in terra imitiamo il suo esempio. E così sia.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
4 Novembre 2023
In Festo S.cti Caroli Borromæi,
Episcopi Mediolanensis et Confessoris
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