Omelia nella festa di Sant’Ambrogio Vescovo

Mons. Carlo Maria Viganò

Omelia

nella festa di Sant'Ambrogio Vescovo,
Confessore e Dottore della Chiesa

Fulget Ecclesia non suo,
sed Christi lumine.

S. Ambr., Exaemeron, 4, 8.

 

Diletti figli, queste sono le parole con cui Sant’Ambrogio, del quale oggi celebriamo l’anniversario della Consacrazione Episcopale. Il 7 Dicembre del 374, infatti, dopo essere stato acclamato pochi giorni prima Vescovo di Milano dal popolo della città, il nobile e ricco avvocato di Treviri, in Germania; il figlio del Governatore delle Gallie; il funzionario inviato a soli venticinque anni come Prefetto del Pretorio a Sirmio, in Pannonia; il Governatore prima della Provincia della Liguria e dell’Emilia e poi della stessa Milano, il neobattezzato Ambrogio riceveva la Sacra Ordinazione. Non festeggiamo dunque il suo dies natalis, ma la data del suo filmineo cursus honorum ecclesiastico. Considerate che lo stimato funzionario romano, di cui tutti ammiravano l’eloquenza e l’eleganza di stile, apparteneva alla gens Aurelia, una famiglia del patriziato molto abbiente.

Il rettore di un Seminario moderno, e a maggior ragione il Vescovo di una Diocesi considererebbero questi fattori – specialmente se uniti alla disciplina esemplare e alla formazione culturale – come degli elementi di tale gravità, da rendere del tutto inidoneo al Sacerdozio il candidato. Ricco ma distaccato dal danaro: appena battezzato donò i suoi averi ai poveri e le proprie terre alla Chiesa. Onesto e di vita austera: anche prima di abbracciare la Fede Ambrogio era ammirato e rispettato dalla nobiltà e dal popolo per le sue virtù. Assetato di Verità, e strenuo difensore dell’ortodossia cattolica contro le eresie, prima fra tutte l’arianesimo, a cui attinge l’eresia neomodernista del Gesuita argentino. Intollerante verso il paganesimo, che come Cristiano e come Vescovo osteggia e combatte con coraggio, tenendo testa a politici, nobili, funzionari imperiali e agli stessi Imperatori d’Oriente e d’Occidente.   Consigliere e guida spirituale di Agostino d’Ippona, che si convertì alla Fede proprio grazie alla sapiente pedagogia di Sant’Ambrogio e all’eccellenza di erudizione che entrambi condividevano.

Tutto questo è quanto di più lontano possiamo immaginare dal modello di Vescovo moderno, conciliare, sinodale. Il quale dev’essere fluido – come ha recentemente ricordato il Prefetto del fu Sant’Uffizio Fernandez alla presa di possesso del Titolo cardinalizio – ossia deve saper prendere come l’acqua la forma del recipiente che la accoglie: perla di saggezza orientale che nasconde dietro una suggestiva similitudine l’indole informe e cortigiana di chi pensa a compiacere l’interlocutore e non a difendere una Verità in cui per primo non crede.

Immaginatevi quale fluidità, quale inclusività dimostrava Sant’Ambrogio, quando in una lettera all’Imperatore Valentiniano scriveva: «Come tutti gli uomini che sono sotto la giurisdizione romana militano al vostro servizio, essendo voi principi e imperatori del mondo, così voi stessi militate al servizio di Dio e della santa Fede. La salvezza infatti non potrà essere certa se ognuno non venererà sinceramente il Dio vero, cioè il Dio dei Cristiani, da cui tutto viene governato. È il solo vero Dio che si deve venerare nell’interiorità della mente; “Gli dei pagani”, come dice la Scrittura, “sono demoni”» (Epistula 72, 1). E lo faceva per contestare la richiesta di Marco Aurelio Simmaco di ripristinare la statua della Vittoria, rimossa dal Senato romano nel 382 su ordine dell’Imperatore Graziano. Ma cosa chiedeva Simmaco, di tanto diverso da quello che propagandano i governanti e i Prelati di oggi? Sentite: «Chiediamo pace per gli dei della patria… Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande». In queste parole, ispirate da quel falso concetto di libertà che pone sul medesimo piano il Dio vivo e vero e gli dei falsi e bugiardi, ritroviamo la medesima peste del liberalismo moderno, penetrata nella Chiesa con Dignitatis humanæ, con il pantheon di Assisi, con la Dichiarazione di Abu Dhabi. Alle richieste di Simmaco, Ambrogio rispose: «Quella verità che tu non conosci noi la abbiamo appresa direttamente da Dio!»

Un episodio analogo si ebbe nel 386, con la promulgazione della legge che autorizzava gli eretici a possedere e a restaurare gli immobili di culto e che comminava la morte a chi non la rispettasse. Erano, quelli, gli anni successivi all’apostasia di Giuliano e al suo tentativo di ripristino del paganesimo, complici gli Ariani. Sant’Ambrogio non esitò a levare la propria autorevole voce e come Vescovo della Diocesi si rifiutò di concedere anche una sola chiesa agli eretici; quando l’esercito imperiale prese d’assedio la basilica in cui Ambrogio e i Cattolici milanesi si erano rifugiati, resistette con coraggio agli abusi, senza abdicare al proprio ruolo e senza mercanteggiare sui principi. Fu in quella occasione che ebbe modo di insegnare ai fedeli, nelle lunghe ore dei giorni di assedio, gli inni da lui composti e che ancora fanno parte della Liturgia ambrosiana e romana. Perché Sant’Ambrogio, non dimentichiamolo, codificò la Liturgia che da lui prende il nome. 

Sant’Ambrogio giunge alla plenitudo Sacerdotii impreparato: solo sette giorni prima non immaginava nemmeno di poter esser chiamato a guidare la Diocesi di Milano, importante crocevia politico, economico e culturale dell’Impero. Ma questa sua mancanza di formazione sacerdotale fu per lui uno sprone allo studio della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, tra cui Sant’Atanasio e San Basilio Magno.

In questi tempi di confusione e di persecuzione molti giovani chiamati dal Signore a servirLo nella Vocazione clericale o religiosa si trovano in una situazione analoga. Anch’essi sono chiamati a gran voce dai fedeli, privati dei Sacramenti e della Messa da sessant’anni di rivoluzione conciliare, come allora da decenni di Arianesimo. Anch’essi non hanno una formazione adeguata, né il tempo e i mezzi per conseguirla in una struttura canonicamente tutelata. Eppure rispondono a questa chiamata, con generosità e fiducia nell’aiuto di Dio che li chiama: come rimanere inerti davanti a questa situazione del tutto straordinaria e unica? quale Pastore – mi chiedo – userebbe le norme della Chiesa, valide per tempi ordinari e concepite per una istituzione sana in tutti i suoi organismi di governo, come scusa per esimersi dal dovere di evangelizzare e santificare le anime?

Oggi, a cinquant’anni dalla fondazione della Fraternità di Mons. Marcel Lefebvre, possiamo riconsocere con serenità ed equità di giudizio che la sua decisione di istituire un Seminario tradizionale che assicurasse buoni sacerdoti fu non solo legittima, ma doverosa. Coloro che all’epoca si opposero con minacce, ritorsioni e sanzioni canoniche hanno dimostrato di essere schierati con chi oggi non fa mistero della propria avversione non solo verso la Liturgia tridentina, ma verso tutto ciò che è cattolico, apostolico e romano. Ma a cinquant’anni di distanza, pare che l’Italia non meriti un Seminario che non pretenda dai suoi chierici di accettare il Vaticano II e la liturgia riformata.

Per questo motivo, come già annunciato lo scorso 2 Dicembre, l’associazione Exsurge Domine ha deciso di destinare le strutture dell’Eremo attualmente in restauro e in costruzione alla realizzazione del Collegium Traditionis, dove impartire alle giovani vocazioni una formazione clericale tradizionale. La decisione delle Monache di Pienza di ritirarsi dal progetto del Villaggio Monastico mi pare vada quindi letta come qualcosa disposto dalla Provvidenza, alla volontà della quale volentieri ci inchiniamo.

Il fuoco di cui era infiammato Sant’Ambrogio quel 7 Dicembre di milleseicentoquaratanove anni fa è lo stesso che arde nei cuori di tanti ragazzi. Sono forse questi tempi meno meritevoli della Grazia, rispetto a quelli dell’Arianesimo in cui visse e militò – poiché la vita del Cristiano è una milizia – Sant’Ambrogio? Diamo loro la possibilità di diventare santi sacerdoti, e avremo la certezza di aver gettato le fondamenta per la ricostruzione della società cristiana di domani.

Sant’Ambrogio, a dispetto del fatuo buonismo conciliare e sinodale, seppe essere un violento: non violento contro il prossimo, ma contro i propri difetti, le inclinazioni al male, le tentazioni. Fu violento come è violento chi conquista la gloria eterna: Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11,12). Una santa violenza fatta di disciplina, di mortificazione, di digiuno, di preghiera, di Ministero instancabile, di totale distacco dai beni materiali per soccorrere i poveri e i bisognosi. E in questo ritroviamo in lui la stessa tempra di altri grandi Santi come Ilario di Poitiers, Ireneo di Lione, Isidoro di Siviglia, o di San Carlo Borromeo.

Questa violenza evangelica si traduce in mitezza con il prossimo, ripristinando quell’ordine divino che il peccato ha infranto. Per questo comprendiamo l’indole di un Santo che non può tollerare il paganesimo e l’eresia e che per sradicarli non risparmia omelie, discorsi, lettere, opere apologetiche e teologiche. Solo chi è divorato dallo zelo per la casa del Signore, come dice il Salmo 69, non trova pace finché non ha ricondotto all’ovile l’ultima pecorella. Solo chi è infiammato dell’amore di Dio reagisce con vigore e con passione, con tutte le sue fibre, nel vedere tante anime destinate al Cielo dannarsi per sempre. Solo chi si lascia rischiarare dal sole sfolgorante della Verità desidera chiamare alla stessa luce divina chi cammina nelle tenebre.

Amare le tenebre e la luce, o anche semplicemente negare che tra esse vi sia una differenza sostanziale, non rivela comprensione o amore per il prossimo, né tantomeno verso Dio: dimostra semmai disinteresse per le anime e per il loro Creatore e Redentore. Il che è quanto di più lontano si possa pensare per un’anima cristiana e sacerdotale.

Nel 1339, durante la famosa battaglia di Parabiago che decretò la consegna del potere della città ai Visconti, Sant’Ambrogio apparve su un destriero bianco, con lo staffile in mano, e terrorizzò i mercenari svizzeri e tedeschi – Protestanti – che stavano per vincere i Milanesi. Fu allora che il Santo venne proclamato difensore della città.

In altre circostanze, come a Cortina nel 1412, in soccorso del popolo cattolico assediato intervenne la Vergine Santissima, mostrandosi anch’Ella a cavallo, con una spada sguaintata in mano. Queste miracolose irruzioni dell’eternità di Dio nella quotidianità degli uomini disturbano i Novatori, che detestano ogni manifestazione di cristiana virilità e preferiscono il vile compromesso, se non l’abbietta complicità con i malvagi. Ma la Chiesa non può essere a immagine del mondo, perché – secondo le parole di Sant’Ambrogio – Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine: la Chiesa risplende non di luce propria, ma della luce di Cristo. Se non risplende della luce di Cristo, non è Chiesa.

Noi abbiamo molti nemici che incombono, e su molteplici fronti. Se non osiamo sperare di veder apparire Sant’Ambrogio a cavallo, possiamo nondimeno pregare il Signore che, grazie al suo esempio e mediante la sua intercessione, ci conceda santi Pastori che difendano la Vigna dal cinghiale che la devasta (Sal 80, 13). E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

7 Dicembre 2023
S.cti Ambrosii Ep., Conf. et Eccl. Doct.

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