In hoc signo vinces

Mons. Carlo Maria Viganò

In hoc signo vinces

Omelia nella festa dell'Esaltazione della Santa Croce

Tum Heraclius, abjecto amplissimo vestitu detractisque calceis ac plebejo amictu indutus,
reliquum viæ facile confecit, et in eodem Calvariæ loco Crucem statuit, unde fuerat a Persis asportata.
Itaque Exaltationis sanctæ Crucis solemnitas, quæ hac die quotannis celebrabatur,
illustrior haberi cœpit ob ejus rei memoriam,
quod ibidem fuerit reposita ab Heraclio, ubi Salvatori primum fuerat constituta.

Lect. VI – II Noct.

 

Nel settimo mese, durante la festa dei Tabernacoli, Salomone aveva compiuto i riti di consacrazione dell’antico Tempio (1 Re 8, 2 e 65); il 14 Settembre 335, nella stessa ricorrenza, Costantino aveva dedicato la Basilica del Santo Sepolcro, per simboleggiare come il luogo della Sepoltura – il Martyrium – e della Resurrezione – l’Anastasis – costituissero il nuovo Tempio di Gerusalemme. La Basilica romana della Santa Croce venne edificata dall’imperatrice Sant’Elena per accogliere le reliquie del Sacro Legno dopo il suo ritorno dal viaggio in Terra Santa, nel 325. Fu lì che il culto della Croce di Cristo si diffuse nell’orbe cattolico – come ricorda Dom Prosper Guéranger – perdurando sino ad oggi. Nel 614 il re persiano Cosroe II invase Gerusalemme, distrusse la Basilica costantiniana, si impossessò della Vera Croce e – in un gesto di empietà che suscitò lo sdegno dei fedeli – usò quel legno benedetto per ricavarne il proprio seggio. Nel 628 l’imperatore Eraclio vinse e decapitò Corsoe, riconquistò Gerusalemme, ricostruì la Basilica del Santo Sepolcro e portò a Bisanzio – abjecto amplissimo vestitu detractisque calceis ac plebejo amictu indutus, scalzo e vestito da pellegrino – le preziose reliquie della Santa Croce. 

Gli eventi storici – perché parliamo di storia documentata e corroborata da autorevolissime testimonianze – che hanno condotto alla diffusione del culto della Croce e alla festa della sua Esaltazione che oggi celebriamo, non devono distrarci da un aspetto spirituale e soprannaturale che è fondamentale per ciascuno di noi. La Croce sulla quale Nostro Signore sparse il proprio Sangue e morì per la nostra Redenzione attraversa la Storia dell’umanità sin da quando, secondo la Legenda aurea del vescovo domenicano Jacopo da Varagine, San Michele Arcangelo ordinò a Set (figlio di Noè) di mettere tre semi dell’albero della vita nella bocca del defunto Adamo: da quei semi nacque un albero che Salomone fece tagliare per la costruzione del Tempio ma che non poté utilizzare e fece seppellire su monito della Regina di Saba. Quel Legno fu ritrovato ai tempi di Cristo e utilizzato per farne la Croce, poi recuperata da Sant’Elena dopo che gli Ebrei l’avevano nascosta per sottrarla all’adorazione dei fedeli. A riprova della sua autenticità rispetto a quelle su cui vennero giustiziati i ladroni, il Santo Legno risuscitò un morto al solo contatto.

La nostra mentalità mondanizzata, infetta di un razionalismo incredulo che nulla ha di scientifico, si sente a disagio dinanzi alla narrazione di eventi prodigiosi che attraverso i millenni uniscono Adamo a Cristo. Ci riesce arduo e quasi imbarazzante credere ad un racconto trasmesso attraverso i secoli in cui si parla della Regina di Saba e del Re Salomone, della fede umile dell’Imperatore Costantino e di sua madre Elena. Ed è sempre la mentalità secolarizzata che ci fa sentire la Croce come un giogo insopportabile, come un segno incomprensibile al mondo, in cui il Sangue del Salvatore impregna le fibre del legno, tenendo inchiodato e straziato dalla Passione il Corpo santissimo del Dio incarnato. Ai tormenti orribili della Croce, la chiesa conciliare ha preferito la tranquillizzante immagine di un Cristo risorto sottratto ai dolori della Passione. Il mondo rifiuta la Croce perché non si riconosce peccatore e non accetta quindi la Passione redentrice di Nostro Signore. Si filius Dei es, descende de cruce (Mt 27, 40): è la tentazione di chi non comprende che non vi è vittoria senza combattimento, né trionfo della Resurrezione senza i patimenti della Croce. 

Lo spirito secolarizzato, penetrato nella Chiesa con la complicità di una Gerarchia senza Fede e senza Carità, è giunto a imporre questa visione orizzontale che vanifica la Redenzione di Cristo, la Sua Incarnazione, la Sua Passione. Se «tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio», come ha blasfemamente affermato Bergoglio pochi giorni fa a Singapore, non occorre nessun Salvatore; né una Chiesa che sia nel mondo strumento di salvezza; né un Papa che nella Chiesa sia vincolo di unità nella Fede. Eppure questo “papa”, per il quale chiunque può salvarsi senza la Rivelazione di Cristo, pretende di essere riconosciuto e obbedito dai Cattolici come capo di quella Chiesa che egli considera blasfemamente inutile; e in nome di un potere usurpato osa addirittura scomunicare chi denuncia la sua apostasia.

Davanti alla Croce ci inginocchiamo adoranti il Venerdì Santo, il giorno della sua Invenzione e oggi, nella festa della sua Esaltazione. Lo facciamo duplici genu, con due ginocchia, come dinanzi all’augustissimo Sacramento: un gesto esteriore di adorazione ci invita a contemplare quei due pezzi di legno spogli, che hanno attraversato la Storia e che ancora rappresentano il discrimen (lo spartiacque) delle vicende umane, sino alla fine dei tempi, quando sarà la Croce a risplendere nel cielo, come anticipato da San Giovanni nell’Apocalisse (1, 7). Davanti alla Croce ci inginocchiamo, spogliandoci di noi stessi, come Cristo stesso fu esposto all’umiliazione e all’obbrobrio al pari di un criminale meritevole di morte. E davanti alla Croce si devono inginocchiare tutte le creature, cœlestium, terrestrium et infernorum (Fil 2, 10), perché il frutto di morte colto dai nostri Progenitori disobbedendo al comando di Dio diventi frutto di vita eterna nel Sacrificio del nuovo Adamo; un frutto maturato nel corso dei secoli mediante la preparazione nell’Antica Legge, fino al compimento nella nuova ed eterna Alleanza; un frutto irrorato del Sangue dell’Agnello Immacolato, che ci risparmia e ci salva al passaggio dell’angelo sterminatore (Es 12, 13). Quell’Albero della Vita che ci fu causa di morte nell’Eden rinasce sul Golgota come strumento di supplizio e di morte, per darci la vera Vita, la vita della Grazia, dell’amicizia con Dio, con la Santissima Trinità, la vita ripristinata in Cristo, vero Dio e vero Uomo.

Torniamo dunque alla Croce, cari fratelli, perché essa è davvero spes unica, come cantiamo nell’antichissimo inno Vexilla Regis. Essa è unica speranza perché nella Croce comprendiamo la necessità della Passione, nei piani di un Dio che Si incarna per redimere il servo, felix culpa. Essa è l’unica speranza perché le gioie, le ricchezze, il benessere, il successo, il denaro, i piaceri di questo mondo sono tutti fallaci e ingannatori. Con essi Satana ci tiene avvinti alle creature, per impedirci di elevare lo spirito al Creatore; ci lega alla finzione, perché non abbiamo a cogliere la realtà; ci illude con le cose effimere, mentre il Signore ci concede la Grazia di entrare nell’eternità. Solo così possiamo comprendere perché alcuni Santi – come San Francesco, modello di povertà e di rinuncia al mondo – siano stati privilegiati da Cristo proprio nel portare su di sé le Stimmate della Passione. Quelle Sante Piaghe ciascuno di noi deve averle impresse misticamente nell’anima, nel rinnegamento di sé che tanto ci costa ma che, solo, ci rende davvero simili a Nostro Signore. 

Si quis vult venire post me, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Lc 9, 23). Il rinnegamento di sé consiste nell’abbracciare la nostra croce, e nel portarla quotidie, ogni giorno, seguendo Cristo verso il Calvario. Ed è la nostra croce, ossia quella che la Provvidenza ci ha destinato – piccola o grande che sia – e non quella che noi vogliamo sceglierci, credendoci capaci di portarla con le nostre forze. Abbiamo una nostra croce e le Grazie soprannaturali che ci permettono di non esserne schiacciati. Questa è la prova, il certamen da affrontare, se vogliamo conseguire il premio eterno ed essere ammessi alla presenza di Dio. Accettiamola come Eraclio, detractis calceis ac plebejo amictu indutus, perché spogliandoci delle vesti di questo mondo – che siamo ineluttabilmente destinati ad abbandonare – possiamo con San Paolo essere rivestiti in Cristo dell’uomo nuovo, in justitia et sanctitate veritatis (Ef 4, 24). E così sia. 

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

14 Settembre 2024
In Exsaltatione Sanctæ Crucis D.N.J.C.

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